Questa “decima” del 2016, a MiTo SettembreMusica è l’edizione dei “factotum”. Il giorno dopo il soprano canadese Barbara Hannigan in Conservatorio, a salire sul podio nel doppio ruolo di direttore d’Orchestra e solista è infatti il turno del violoncellista Mario Brunello: al Dal Verme con l’Orchestra Filarmonica di Torino.
Gaia Varon, che presenta con lui la serata, lo definisce un “esploratore curioso con l’arco, un moltiplicatore del piacere di ascoltare musica: visto che suona, dirige ed introduce” i brani di un concerto dal programma che, trattandosi di trascrizioni, potremmo definire, beninteso in senso positivo, “di seconda mano”!
Si comincia con l’Arioso di Leopold Stokowski (1882-1977) che trascrive per orchestra il Largo dal Concerto n. 5 in fa minore per clavicembalo, archi e continuo BWV 1056 di Johann Sebastian Bach (1685-1750).
Il secondo brano, trattandosi di una commissione di MiTo SettembreMusica ad Alberto Colla (1968), è in prima esecuzione assoluta: l’Intermezzo, dall’op. 118 n. 2 per pianoforte di Johannes Brahms (1833-1897).
Segue la Suite italienne per violoncello e archi che il londinese Benjamin Wallfisch (1979) ha trascritto dalla Prima suite italienne per violino e pianoforte di Igor Stravinsky (1882-1971).
Infine “tocca” al Concerto in la minore per violoncello e orchestra: trascrizione del violoncellista e compositore spagnolo Gaspar Cassadò (1897-1966) dalla Sonata Arpeggione D. 821 di Franz Schubert (1797-1828) per pianoforte ed, appunto, arpeggione.
Una proposta dunque originale ed interessante questa di far riascoltare brani molto noti che però, nella loro riedizione curata da altri, altrettanto notevoli, musicisti, assumono nuove sfumature e nuovo interesse. Fatto del resto del tutto normale nella storia della musica dove la pratica della trascrizione, o comunque della rielaborazione di materiale musicale altrui, è sempre stata consueta.
Un esempio su tutti: Johann Sebastian Bach, di cui sono celeberrime le trascrizioni per clavicembalo solo dei concerti di Vivaldi e lui stesso “riciclatore” della propria musica, come nel caso del suo brano di questa sera: riutilizzato nella Sinfonia della Cantata BWV 156.
A ben guardare poi anche gli altri brani di partenza, non sfugge che i vari Stokowski, Colla, Wallfish e Cassadò su di essi hanno svolto una rielaborazione addirittura di “terzo livello”.
Già la versione pianistica originale dell’Intermezzo op. 118 n. 2 di Brahms ispira in tutti coloro che la ascoltano una visione orchestrale. Ad essa, con grazia e sapienza, Colla aggiunge «una pennellata di 2016” spiegando di aver voluto “espandere il suono dell’orchestra fino a raggiungere amplificazioni inaspettate, estreme, visionarie”, “(…) ma cercando di rispettare al massimo il lavoro brahmsiano.».
Da parte sua, Benjamin Wallfisch, compositore di colonne sonore e figlio del violoncellista Raphael Wallfisch, con la sua versione per violoncello e archi della Prima Suite italienne, di Stravinskij si aggiunge ad una lista già lunga, sempre aperta a nuovi contributi e cominciata dallo stesso compositore russo con la musica richiestagli da Diaghilev per il balletto Pulcinella che voleva avesse un “sapore partenopeo”.
Stravinskij allora si rifà ai musicisti napoletani del Seicento ed in particolare rielabora pagine inedite di Pergolesi e spiega il suo lavoro dicendo che si trattò «di insufflare nuova vita a dei frammenti sparsi e di costruire un insieme con dei brani staccati di un musicista verso il quale avevo sempre provato una propensione e un’emozione particolari». Dal balletto, immediatamente dopo la prima, lo stesso Stravinskij trasse una suite da concerto: la Suite italienne che già nel 1925 appare in una prima riduzione per violino e pianoforte (Suite su temi, frammenti e pagine di Giambattista Pergolesi) e dalla quale negli anni ’30 nacquero, rispettivamente per il violoncellista Gregor Piatigorskij e per il violinista Samuel Dushkin, le Suite italienne n.1 per violoncello e pianoforte e n.2 per violino e pianoforte.
Quanto a Schubert, si ritiene che la Sonata D 821 gli sia stata commissionata da Vinzenz Schuster, promotore dell'arpeggione, lo strumento appena costruito dal liutaio viennese Johann Georg Staufer e meglio conosciuto con i nomi di chitarra-violoncello, chitarra d'amore o chitarra ad arco.
L'arpeggione era un ibrido tra il violoncello e la chitarra: suonato con l'arco e tra le ginocchia come il violoncello, contava sei corde come la chitarra, della quale riprendeva anche la forma della cassa e l'aspetto della tastiera. Negli anni Trenta dell’Ottocento lo strumento era già dimenticato. Eseguita da Schuster nel novembre 1824, la Sonata D 821 rimase manoscritta; quando la si pubblicò per la prima volta era il 1871 e, ormai scomparso l'arpeggione, l'editore Gotthard provvide a trascriverne la parte per violino e per violoncello. Quest'ultimo, tra i vari strumenti alternativi adottati nella prassi esecutiva (violino, viola, chitarra), è senz'altro per registro e qualità il più adatto a sostituire l'arpeggione, senza tuttavia riuscire a restituirne il particolarissimo timbro nel quale, lo si intuisce dalla scrittura e dalla forma della sonata, risiede uno degli elementi fondanti della composizione.
Curandone un’orchestrazione schubertiana Cassadò (di cui nel 2016 ricorre il 50° della morte) dà a questa sonata “salottiera” il vestito per suonare “romantica” traendone un concerto grazie al quale viene colmato un vuoto temporale nel repertorio concertistico per il violoncello, che sentiva la mancanza dell’epoca di mezzo fra Haydn (1732-1809) e Schumann (1810-1856).
Di tutto questo lavoro dei vari musicisti citati, in sala al Dal Verme si percepisce la commovente venerazione per le melodie di Bach da parte di Stokovski. Noto al grande pubblico perché è lui a stringere la mano a Topolino in Fantasia, era un direttore “rimaneggione” consueto alla pratica di adattare musica altrui alle proprie orchestre (nelle quali, per inciso, c’erano 18 contrabbassi ed i violini saranno stati 46!) e vissuto in un’epoca nella quale si rimaneggiava ben più di oggi. Ciononostante tratta questo brano con estremo riguardo, semplicemente quasi limitandosi a “ripulirlo” dagli abbellimenti. Un musicista degno di questo nome non avrebbe potuto fare altro di fronte ad una musica grazie alla quale comprendiamo il modo in cui Bach pensava alla morte: “Ich steh mit einem Fuß im Grabe” - “Io ho un già piede nella tomba” - recita la Cantata BWV 156 nella cui sinfonia si è già detto che Bach lo riutilizzò.
Se poi Colla “espande” le armonie di Brahms fino al rullare dei timpani, lo Stravinsky di Wallfisch, in versione per i soli archi e senza fiati, perde notevolmente in potenza sonora. Resta invece un non agevole banco di prova per le qualità del solista: non tanto dal punto di vista tecnico, i passaggi veloci sono per lo più scalette, quanto per l’interpretazione.
Infine su Cassadò veniamo a sapere che Brunello teneva molto ad eseguire questo concerto nel quale si possono anche riconoscere le radici del successo attuale della musica barocca. Per vendere e farsi un nome che potesse convincere gli editori a pubblicare musica, si aggiungeva il proprio ad un nome importante rivedendone qualche celebre lavoro, così guadagnandosi i primi favori del pubblico al quale poi proporre la propria opera autonoma.
Cassadò questo obiettivo lo coglie in pieno. Per di più componendo un concerto che assume un rilevante ed autonomo valore musicale rispetto alla sonata originale di Schubert alla quale è debitore.
Sempre impostati sulla linea programmatica dell’intero concerto, i due bis hanno visto Brunello dapprima dirigere la Sarabanda di Bach dalla V suite per violoncello ripensata da Schumann per orchestra d’archi e successivamente un brano solistico di Cassadò sul quale ha lanciato alla direzione artistica di MiTo l’invito a commissionare una sua orchestrazione per la prossima edizione del festival.