Modigliani, Soutine e gli artisti di Montparnasse
La collezione Netter
L'ECLETTICO - web "aperiodico"
JONAS NETTER, IL MECENATE DI MONTPARNASSE
Modigliani, Soutine e la Scuola di Parigi
È difficile, per un appassionato ma non esperto d’arte come il sottoscritto, avvicinarsi ad una mostra dedicata ad Amedeo Modigliani (“Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti: La collezione Netter” - Milano, Palazzo Reale 2013) senza il pregiudizio ereditato dalla vicenda dei volti scolpiti col trapano da un gruppo di burloni per ingannare - con successo, almeno in alcuni casi - i critici d’arte.
Del resto gli amanti dell’arte giudicavano le sue opere dei veri e propri obbrobri anche al tempo in cui videro la luce.
Ma non tutti, per la verità, la pensavano così. Jonas Netter, un ometto dall’aspetto non certo appariscente, addirittura insignificante (come ci appare nel bel Ritratto d’uomo che gli fece Moïse Kisling nel 1920 e ritrovato sul retro di un’altra tela), benché di mestiere facesse il rappresentante, quindi un lavoro del tutto estraneo al mondo dell’arte, con grande lungimiranza capì il valore del giovane pittore livornese allora ancora pressoché ignoto e ne acquistò le opere, incoraggiandolo e sostenendolo.
Un intuito che vale a Jonas Netter l’essere considerato uno dei collezionisti più importanti del XX secolo: senza di lui probabilmente oggi non ammireremmo come capolavori assoluti i dipinti di Modigliani, di Soutine, di Utrillo… semplicemente perché non sarebbero esistiti, né le tele né i loro autori!
Ebreo alsaziano trapiantato a Parigi, affascinato dall’arte – egli stesso brillante melomane e notevole pianista – e dalla pittura, Netter non poteva permettersi di acquistare opere dei suoi preferiti: gli Impressionisti ammirati nelle gallerie e nei musei.
Dunque deve scovare artisti alla portata delle sue finanze (quindi del tutto sconosciuti) e questa ricerca lo porta a diventare un amateur illuminato e acuto riconoscitore di talenti.
A guidarlo in questo mondo sono i suggerimenti del mercante d’arte e poeta polacco Léopold Zborowski, anch’egli ebreo e del quale possiamo cogliere la personalità disinvolta nel Ritratto di Zborowski (1916) che gli dedica Modigliani; che ci fa conoscere anche lo sguardo malinconico di sua moglie fissato, a matita su carta, nel Ritratto di Hanka Zborowska (1918).
Grazie a lui Netter scopre Modigliani ed è tra i primi ad acquistarne le opere… praticamente tutte quelle che Zborowski gli mostra.
Alla fine degli anni Venti ne possiederà una quarantina.
Poi è la volta di Soutine, presentatogli dallo stesso Modigliani.
Per lui, che nell’Autoritratto con tenda (1917 circa) si vede emergere come da un tronco d’albero, Netter concepisce una passione sconfinata, come per tutti gli artisti che costituiscono la cosiddetta Scuola di Parigi.
Quindi arriva a Utrillo, affascinato dal suo "periodo bianco" ne compra dipinti a decine!
Sempre con l’aiuto di Zborowski che, finanziato da Netter, si ritrova a capo di un vero e proprio nuovo mercato e di una costellazione di giovani artisti dei quali sarà il principale promotore.
A questo gruppo appartengono Suzanne Valadon e Kisling, e con loro tanti altri… altrettanto straordinari seppure non siano diventati altrettanto famosi: Krémègne, Kikoïne, Hayden, Ébiche, Antcher.
Per tutti Netter diventa quasi un “mecenate”, ispirato e geniale.
Come detto in apertura, non dobbiamo dimenticare che, rispetto alla considerazione dei contemporanei per questi pittori, la sua intuizione appare una vera e propria profezia, oltre che un atto coraggioso e spesso disinteressato. Se Netter non ne avesse generosamente acquistato i lavori, molti tra loro non avrebbero avuto di che vivere e sostentarsi.
Sicuramente a spingerlo su questa strada furono, oltre che l’acuta sensibilità artistica, anche uno spirito di solidarietà ed una profonda umanità.
Chi se ne intende afferma: “non v’è dubbio che nella sua collezione le opere più notevoli siano quelle di Modigliani”. Senza la minima esitazione Netter le acquista con un piacere e una gioia rari, incurante del dissenso di chi lo circonda, che lo tratta da matto e gli rimprovera di acquistare “simili orrori”. Ma lui crede nei suoi artisti; al punto che, quando rivende qualche tela agli inizi degli “anni folli”, non lo fa per guadagnarci, ma per promuoverli. Così, vende sette Modigliani a un suo corrispondente in Argentina pensando sia importante farlo conoscere in un continente lontano come l’America del Sud.
Assai sensibile all’idea che la cultura debba essere per tutti e alla portata di tutti, Netter sogna che i suoi artisti possano un giorno arrivare anche negli ambienti più modesti e che il pubblico più ampio possibile possa avere accesso a tali meraviglie.
E questa mostra gli rende giustizia presentando un’inedita esposizione di opere di Modigliani che ricostituisce, insieme ad altri dipinti che si è riusciti a ritrovare, la collezione di Jonas Netter così come era ai suoi tempi.
Capolavori acquistati nell’arco di una vita da questo benefattore mantenutosi sempre assolutamente discreto, al punto da essere tuttora sconosciuto al grande pubblico.
A causa di questo suo atteggiamento di Jonas Netter non rimane nulla di personale, tranne le opere che amò e che anche noi oggi possiamo contemplare.
Dal percorso espositivo che le mette a confronto - ad esempio La bella spagnola o Madame Modot (1918) di Modigliani [sopra], le due di Soutine Uomo con cappello (1919 - 1920 circa) e Bambina vestita di rosa (1928 circa) e La spagnola (1919) di Kisling [rispettivamente a lato, sotto e più in basso] con soggetti di cui si dirà più oltre - emerge una sorta di “ritratto di famiglia” di artisti che vissero in un periodo affascinante della storia dell’arte nel quartiere di Montparnasse agli inizi del ‘900.
Modigliani era giunto a Parigi nel 1906 sentendo che quello era il posto dove avrebbe potuto “salvare il suo sogno”. Va a vivere a Montparnasse che, in quegli anni, diventa il quartiere degli artisti; non solo pittori, ma anche scrittori, intellettuali e rifugiati politici.
I luoghi di incontro sono trattorie economiche e bettole-cantine in cui si tira tardi parlando di arte e politica. Le condizioni di vita sono per tutti assai misere, ma si resiste con la forza che viene dall’arte e dalla consapevolezza che le proprie opere stanno cambiando per sempre i canoni estetici.
Se l’Impressionismo, pur avendo rivoluzionato il modo di dipingere, non usciva in fondo dai precetti del naturalismo, con Modigliani, Soutine, Utrillo, l’arte diventa autonoma dal soggetto ritratto e dalle tradizioni culturali e artistiche dei paesi di provenienza dei singoli artisti.
È un contesto - che verrà definito bohémien - dove, come scrive Marc Restellini: “Questi spiriti tormentati si esprimono in una pittura che si nutre di disperazione. In definitiva, la loro arte non è polacca, bulgara, russa, italiana o francese, ma assolutamente originale; semplicemente è a Parigi che tutti hanno trovato i mezzi espressivi che meglio traducevano la visione, la sensualità e i sogni propri a ciascuno di loro”.
E ancora: “Quegli anni corrispondono a un periodo d’emancipazione e di fermento che ha pochi eguali nella storia dell’arte. Ovunque in Europa era in corso una rivoluzione estetica, preludio a un’evoluzione dei costumi; ed è a Parigi, ‘l’unico luogo al mondo in cui la rivolta ha il diritto di cittadinanza’, prima a Montmartre e poi a Montparnasse, che quegli artisti – tutti ebrei – si sono ritrovati per tentare la sorte”.
Se Montmartre era il palcoscenico degli Impressionisti, Montparnasse, nella Parigi di inizio Novecento, corrisponde al Monte Parnaso nell’antica Grecia ed i pittori vi prendono il posto di Apollo e delle muse.
E, come gli dei e semidei della mitologia antica, intrecciano vicende e relazioni che non sono cantate da poeti e drammaturghi ma rappresentate da essi stessi con i colori sulle tele. Passeggiare per le sale di Palazzo Reale ad ammirarle orientando le nostre scelte secondo ciò che di esse più colpisce la nostra attenzione diventa quindi un modo interessante per cominciare ad avvicinarsi alla loro arte ed alle loro biografie; che scegliamo di percorrere in un forse banale, ma comodo, ordine alfabetico di cui si avvantaggia qualcuno fra gli artisti meno celebrati.
Isaac Antcher (Peresecina 1899 – Parigi 1992) fu colui che, indirettamente, pose termine alla collaborazione di Netter con Zborowski nel 1929 quando, come testimoniato nelle sue Mémoires, il primo scoprì che il socio non corrispondeva al pittore la metà dello stipendio che gli spettava di versare. Zborowsky morì in miseria solo 3 anni dopo, stroncato da una polmonite a 43 anni.
Ebreo praticante, Antcher arriva a Parigi dalla natia Russia e si mantiene con i più disparati mestieri. Se ne allontana, ma vi ritorna, dopo un periodo vissuto da pioniere in un kibbuz in Palestina dove studia scultura. Conosce successo e tranquillità economica, ma la crisi del 1930 lo fa tornare ai mestieri umili. Rifugiatosi in Svizzera durante la guerra, rientra a Parigi.
Nel 1968 perde l’uso della mano destra ma si sente paradossalmente più libero. Alla morte del padre, torna alla religione diventando un mistico. Solitario, lontano dalle correnti e dalle mode, ha saputo creare un’arte personale e profonda.
I suoi maestri sono “i paesaggisti della scuola di Barbizon, Corot soprattutto, che più di ogni altro conobbe il mistero dell’anima nascosta dentro un albero”. Antecedente ben manifesto negli alberi pennellati a macchie intense che si stagliano sul fondo azzurro del cielo nel Paesaggio di Saint Tropez (1930); dove dimostra un occhio “scientifico” attento al fototropismo dei rami bassi che si allungano sulla destra a cercare la luce.
Altri alberi, che a me sembrano ciminiere, li ritrovo nel Bosco presso Martigues (1914), ai miei occhi quasi una fabbrica, di André Derain (Chatou 1880 – Garches 1954). Amico anche di Matisse e tra gli artefici del fauvismo, di lui si ricorda che un giorno De Vlaminck gli mostra una statuetta africana scovata in un bar. Derain, entusiasta, la porta a Picasso e, secondo alcuni, senza quella statuetta non ci sarebbero state né Les demoiselles d’Avignon di Picasso, né Le grandi bagnanti (1908) di Derain:
dipinto che si pensava perduto e ritrovato da Restellini in Normandia, dietro un cancello in cima ad una scala in un grande edificio.
La fama di Derain, che partecipa – entusiasta! - alla Prima guerra mondiale nasce negli anni Venti e proseguirà fino alla morte, facendone una delle figure dominanti dell’arte contemporanea.
Sul letto di morte, come ultimo desiderio, chiede ad un’amica un pezzetto di cielo azzurro e una bicicletta.
Come Antcher, anche Eugène Ébiche (Lublino 1896 – Varsavia 1987) appartiene alla seconda ondata di artisti sostenuti da Zborowski e Netter.
Grazie a una borsa di studio parte per Parigi nel 1922, dove rimane fino al 1939. Tornato in patria, inizia un nuovo periodo artistico e di vita distinguendosi dal percorso seguito dagli altri pittori della Scuola di Parigi. Come loro pittore d’emozione, ma anche di rivolta e di contestazione, una volta tornato in Polonia, riveste una posizione di artista ufficiale, conservando la propria indipendenza e facendo valere le proprie convinzioni artistiche di fronte a un realismo socialista dogmatico e intransigente.
È polacco anche Henri Epstein (Lodz 1891 – 1944 ca.), che arriva a Parigi nel 1913 e si stabilisce a La Ruche. La sua pittura, alla quale si dedica incoraggiato dalla madre, evolve verso un’esecuzione di tipo espressionista. Contribuisce con i suoi lavori a riviste ebraiche.
Nel 1938 acquista una fattoria nei pressi di Épernon, nell’Eure-et-Loir, che diventa suo luogo di lavoro e rifugio durante l’Occupazione Nazista.
Il 23 febbraio 1944, tre agenti della Gestapo lo arrestano a Épernon. Sono vani gli sforzi per liberarlo degli amici e della moglie, figlia del pittore Dorignac. Viene internato a Drancy ed il 7 marzo 1944 è avviato ad Auschwitz, da dove non tornerà.
La stessa sorte toccherà anche ad Aizik (Adolphe) Feder (Odessa 1886 – 1943 ca.) che non sopravviverà ad Auschwitz dopo essersi rifiutato di fuggire all'avvento del Nazismo. La moglie, che invece riesce a scappare da Drancy, salva un album di disegni del marito realizzati nel campo di prigionia. A Parigi arriva nel 1908. Frequenta l’atelier di Matisse e, spesso, il Café de La Rotonde dove si incontra con Modigliani, Friesz e Lipchitz. Viaggia in Francia e in Palestina. Colleziona arte africana e i naïfs. Nel 1923 pubblica alcuni disegni su “Le Monde” e illustra libri, in particolare di Joseph Kessel e di Rimbaud. Espone nei maggiori salons parigini, soprattutto al Salon des Tuileries e nel 1912 è nominato membro della Société du Salon d’Automne. Il bianco e nero del suo Ritratto di donna (1915) non passa inosservato.
Alla colonia polacca appartiene anche Henri Hayden (Varsavia 1883 – Parigi 1970) che, dopo aver studiato ingegneria a Varsavia, ottiene dal padre di potersi recare a Parigi. Scopre il Louvre e Gauguin ma adora Cézanne (omaggiato di melanzana, cetriolo ed altra frutta e verdura nella Natura morta su sgabello 1920 circa) e diventa cubista. Lasciato il cubismo, si apre per lui un periodo di incertezza e continua ricerca. Firma un contratto con Zborowski. Per sfuggire alle persecuzioni degli ebrei, nel 1940 si rifugia a Mougins, dove ritrova Robert e Sonia Delaunay che lo confortano col loro affetto. Il suo grande amico Samuel Beckett dirà di lui: “per tutta la sua vita ha saputo resistere alle due grandi tentazioni, quella del reale e quella della menzogna”.
Grande amico di Krémègne e Soutine, che conosce in patria prima che tutti e tre vadano a Parigi, Michel Kikoïne (Gomel 1892 – Cannes 1968) rimane incantato dai lavori di Pissarro e Cézanne che influenzeranno il suo stile. È Modigliani a introdurlo nel mondo dei mercanti d’arte; le sue opere, più delicate e meno accese di quelle dell’amico Soutine, incontrano il gusto della borghesia parigina. Si arruola volontario durante la Prima guerra mondiale. Rientrato a Parigi, la tranquillità economica gli permette di vivere in campagna. Durante la Seconda guerra mondiale si rifugia con la famiglia a Tolosa, a causa delle persecuzioni degli ebrei. Trascorre tutto il 1954 in Israele, dove abbandona il segno espressionista e torna a forme più morbide. Si trasferisce poi a Cannes dalla figlia dipingendo vedute del Mediterraneo fino alla morte.
Ebreo polacco è anche Moïse Kisling (Cracovia 1891 - Sanary-sur-Mer 1953). Arriva a Parigi nel 1910 nemmeno ventenne, va a vivere nello stesso stabile di Zborowski e pare sia stato lui a presentare Modigliani al mercante.
Pieno di energia, di un’allegria contagiosa (che esplode nei colori vibranti della sua pittura come nella Donna con maglione rosso del 1917) e di una generosità assoluta, Kisling conduce una bella vita, ma tutte le mattine alle otto, quando arriva la sua modella, è pronto a mettersi al lavoro.
Di lui si raccontano stranezze… come quando la pittrice Marevna lo trova con un cero in mano, intento ad una veglia funebre sul suo gatto: morto per aver inghiottito un tubetto di pittura.
Florent Fels lo descrive “Scontroso per autodifesa ma generoso per natura, così bello da far girare la testa alle donne al suo passaggio, ci incantava col suo ottimismo aggressivo, con i suoi ingressi a effetto nei locali eleganti, col suo côté di ‘uomo primitivo’, grazie al quale anche le donne più raffinate da lui ritratte – Colette de Jouvenel, Falconetti, Valentine Tessier, Arletty, Madeleine Sologne – accettavano con indulgenza le “libertà” che egli si prendeva”.
Forse è per questo atteggiamento che Modigliani non consente di posare per lui a Beatrice Hastings, con la quale per due anni vive una controversa relazione caratterizzata da intenso affetto ma anche da litigi furibondi, e della quale ci consegna il volto nel Portrait de Béatrice Hastings (1915).
Allo scoppio della prima guerra mondiale Kisling si arruola nella legione straniera.
Riformato per una grave ferita, ottiene la cittadinanza francese.
La sua carriera artistica prende il via in quegli anni. Si sposa, ha due figli, con l’avvento nel Nazismo fugge in America per tornare in Francia a guerra finita.
Pinchus Krémègne (Žaludok 1890 – Céret 1981), scampato con Soutine ai pogrom russi antisemiti, presenta l’amico a Modigliani. Appena arrivato a Parigi, si dedica alla scultura, che però abbandona per la pittura.
Con Kikoïne e Soutine visitano spesso il Louvre e altrettanto spesso trascorrono le serate nelle bettole di La Ruche.
Diventa un protetto di Zborowski e nel 1918 soggiorna per la prima volta a Céret (a lato una sua visione del 1930 circa), centro del cubismo, dove ritrova Soutine, mandato lì da Zborowski.
Conosce il successo, si separa dalla moglie, scappa da Parigi durante la Seconda guerra mondiale e, quando vi rientra, trova il suo studio intatto. Vagherà tra Inghilterra, Svezia ed Israele, farà l’agricoltore e finirà i suoi giorni a Céret.
Di Amedeo Modigliani (Livorno 1884 – Parigi 1920) Netter ammira l’originalità del genio creativo ed ama profondamente i volti femminili stilizzati su lunghi colli affusolati, come Elvire au col blanc (Elvire à la collerette) del 1917-18 e Fillette en robe jaune (Portrait de jeune femme à la collerette) del 1917.
Entrambe con alle spalle lo stesso camino, insufficiente a scaldarle come testimoniano l’arrossamento delle gote e del dorso delle mani.
Entrambe col volto malinconicamente inclinato, come nelle icone sacre orientali che riservano al Cristo la postura eretta.
È indubbio che la fortuna di Modigliani iniziò il giorno dopo la sua morte.
E che in vita, non ebbe mai quel consenso e riconoscimento del suo stile che aveva sempre cercato.
Se gli scatti di collera, le liti, le ubriacature e le altrettante gentilezze, la sua aurea di ebreo italiano colto, dai bei modi e dal grande charme, erano diventati il suo marchio tra artisti, collezionisti e amici, erano anche il segnale di una ricerca e un’intensità portata all’estremo.
Avrebbe forse potuto condurre un’esistenza appena più decente se avesse seguito la moda e i consigli di Zborowski che lo spingeva a ritrarre paesaggi.
Un giorno Modigliani urla a Diego Rivera, di fronte a un attentissimo Picasso: “Paesaggi! Ma non farmi ridere, il paesaggio non esiste”.
Emblematica di questa determinazione è la Cariatide (Blu) (1913 circa) in cui il soggetto prende forma emergendo dal tratteggio, a matita blu su carta, che definisce il volume.
Non è certo come Zborowski sia entrato in contatto con Modigliani. Se li abbiano presentati Kisling o la moglie del pittore Foujita oppure si siano incontrati in una strana galleria, a una mostra intitolata “La lyre e la palette”.
Zborowski crede nell’opera di Modigliani e ne prende subito a cuore le sorti, addirittura mettendogli a disposizione casa propria per dipingere dal momento che Modigliani non ha nemmeno un alloggio suo.
Spesso mangia anche lì. Paulette Jourdain, una ragazzina che frequenta la casa e che poserà anche per Modigliani, scrisse che per nessun altro artista Zbo, come veniva chiamato familiarmente da Modigliani, affrontò un’incredibile quantità di sacrifici.
Ma è grazie all’aiuto di Netter se nel 1915 Zborowski ottiene l’esclusiva delle opere di Modigliani anche se i tre formalizzano un contratto solo nel 1919. Quando Modigliani è troppo stanco e malato, Zborowski gli offre un soggiorno in Costa Azzurra (sempre grazie ai danari di Netter che gli compra abbastanza tele da permettergli di affrontare il viaggio), durante il quale poi l’artista lavorerà intensamente. E sono sempre i due che permettono a Modigliani di avere una vera casa dopo dieci anni che era arrivato a Parigi.
Zborowski gli organizza la sua prima “personale”, che chiude ancora prima di aprire, ma non si scoraggia e nel settembre 1919 espone alla Hill Gallery di Londra dieci sue tele. Questa volta con un discreto successo per le critiche positive e la vendita di alcune opere. Ma a Parigi, nonostante molti dei suoi amici stiano cominciando a vendere ed essere riconosciuti, Modigliani continua a non essere capito, tranne in casi del tutto eccezionali come quello di Netter.
Intanto trova l’amore della vita in Jeanne Hébuterne, tutta sopracciglia, occhi e dolcezza infantile nel Ritratto di ragazza dai capelli rossi (1918), e diventa padre. E nonostante i problemi di salute e la tubercolosi che lo attanaglia, Modigliani continua a dipingere con una determinazione che sfiora l’eroismo, o l’incoscienza, fino alla morte, a 36 anni.
Tragedia immediatamente seguita da quella della diciannovenne compagna che si uccide lanciandosi dal quinto piano della finestra di casa dei genitori due giorni dopo la morte di Amedeo, da cui aspettava un bambino prossimo alla nascita.
Jeanne è a sua volta pittrice e in mostra ne vediamo l’Adamo ed Eva (1919) che fondono le loro dita a cospetto del serpente e di tre montoni.
L’ultima dimora di Modigliani è pagata da Kisling, mentre Zborowski fa fortuna con le opere del suo protetto.
Opere nelle quali le forme eleganti che rinviano alle sculture africane sembrano all’apparenza disegnare volti pressoché tutti simili l’uno all’altro, come fossero schizzi tracciati in fretta.
Ed invece in ognuno di essi sono presenti dettagli, non solo fisici, che caratterizzano la fisionomia e la personalità dei soggetti dipinti… che il cervello coglie e rielabora consentendoci di riconoscerli senza lasciare dubbi.
Anche quando gli occhi sono senza pupille: soltanto macchie di colore in inquietanti orbite cieche… perché Modigliani, come spiegava lui stesso, non poteva dipingerle quando non aveva catturato la vera essenza di chi stava ritraendo.
È il caso del Ritratto di Lepoutre (1916). Constant Lepoutre era un mercante d'arte e corniciaio parigino che conobbe l'opera di Modigliani in una mostra nel novembre del 1916. Impietosito dalla vita di stenti condotta dall'artista e avendone intuito il valore, iniziò ad aiutarlo economicamente.
Modigliani in cambio lo ritrasse chiedendogli di indossare la giacca giallina ed il cappello nero da lavoro.
Occhi che tornano, invece, limpidi e vivissimi nella Bambina in abito azzurro (1818) e ne La bella spagnola o Madame Modot (1918) dal vestito giallo “macchiato” da fiori (si veda l'immagine pubblicata più sopra).
Occhi ancora presenti nel Ritratto di Soutine (1916), dipinto dopo l’incontro tra i due artisti e nel quale colpiscono, fra il ciuffo di folti capelli ed il naso pronunciato, lo sguardo spento e le labbra di donna, così come le dita affilate alle estremità, dell’amico rivestito da una pesante giacca di montone.
Sorpreso a tratteggiare a carboncino il ritratto del rabbino del villaggio in Lituania in cui è nato,
Chaïm Soutine (Smiloviči 1894 – Parigi 1943) viene picchiato con tale durezza da finire all’ospedale perché per gli ebrei osservanti è vietato riprodurre immagini.
Questa è solo una delle tante violenze subite in giovane età da parte dei genitori.
Punizioni che lo terrorizzano e lo spingono a decidere di raggiungere a piedi Parigi, dove arriva sporco ed infestato dai parassiti… un “selvaggio” di cui si disdegna la compagnia schiacciato dalla vita come i suoi Pesci (1917 circa) nella scatola di latta.
Modigliani invece lo prende a benvolere, gli insegna a soffiarsi il naso nel fazzoletto e non nella cravatta e lo presenta a Zborowski, che però crede ben poco nel suo talento e gli paga in ritardo il mensile dovuto, ed a Netter, al quale, invece, la sua pittura piace molto; al punto che le opere dell’artista lituano costituiscono il nucleo principale della sua collezione.
Di esse a Palazzo Reale sono esposti oltre venti olii, una mostra nella mostra che consente interessanti confronti: ad esempio fra i suoi improbabili Platani a Céret (1920 circa) su suolo rosso-marziano in franante rotazione assieme alle case circostanti, e la veduta di Céret di Krémègne, o fra i suoi Bambina vestita di rosa (1928 circa) e Uomo con cappello (1919 - 1920 circa), di cui più sopra sono pubblicate le fotografie, e gli analoghi di Modigliani appena descritti.
Quando nel 1919 Soutine, oppresso dai debiti, vuole suicidarsi, è Netter che lo aiuta, liquidando i creditori.
Rappresentativa della sua condizione esistenziale del tempo e della sua pittura disperata è La pazza (1919 circa) le cui mani appoggiate sulle ginocchia diventano radici nodose.
Ma la vera svolta nel suo destino è segnata dall’arrivo a Parigi del ricchissimo collezionista americano Albert Barnes, che alla fine del 1922 si entusiasma alla scena dell’arte europea e torna negli USA con settecento opere di artisti dell’ultima generazione, fra i quali Soutine, alla cui pittura si appassiona e che gli procura fama internazionale.
In cambio, il miserabile pittore che Zborowski trovava repellente accede improvvisamente alla gloria: diventa ricchissimo e si trasforma in un raffinato dandy.
Anni dopo, quando Modigliani era morto da tempo ed era ormai famosissimo, a chi glielo ricordava Soutine era solito rispondere: “Non mi parlate di quell’italiano che mi ha quasi fatto diventare un alcolizzato”.
Sempre frequentando Modigliani Netter scopre Maurice Utrillo (Parigi 1883 – Dax 1955), in particolare i quadri del suo “periodo bianco”: così detto dal colore bianco di zinco di cui fa ampio uso, ad esempio in Rue Norvins (1909 circa).
Sono soprattutto vedute di strade e piazze, palazzi e casupole, scuole o chiese… con le insegne dei negozi, i tetti di lamiera o paglia, i muri screpolati, le palizzate… che fissa nelle sue tele quasi riecheggiando gli Impressionisti.
Ambienti urbani di cui, accanto alla sua firma, capita che riporti anche l’indicazione toponomastica, come in Rue Marcadet a Paris (1911).
E risalendone a fatica le impervie viuzze, fra le quali la scalinata della Rue Muller a Montmartre (1908 circa), lui stesso si aggira, cupo e selvaggio, per il quartiere dove vive con la madre Susanne Valadon, anch’essa pittrice valente ed originale presente in mostra.
Di padre incerto, è riconosciuto da un giornalista spagnolo con cui la Valadon aveva avuto una relazione.
Da piccolo è affidato alla nonna che lo rende un alcolizzato nel tentativo di calmare col vino le sue crisi epilettiche.
Tornato dalla madre, questa cerca di curarlo con la “terapia della pittura”.
Nascono così i suoi lavori che sono tra le raffigurazioni più toccanti di Montmartre e dei quartieri limitrofi Pierrefitte e Montmagny, di cui dipinge la Piazza della Chiesa a Montmagny (1907 circa).
Ma la pittura non lo salva: nella fase più acuta del suo alcolismo arriverà a bere l’acqua di colonia e la trementina usata per stemperare i colori.
Della forte amicizia che stringe col quasi coetaneo Modigliani i maligni asseriscono che è il vino a unirli.
Invece Amedeo che, pur avendo un’intelligenza superiore, vede in lui la sua stessa difficoltà ad affrontare le difficoltà di ogni giorno, non si arrabbierà mai con Utrillo; nemmeno quando, mentre è addormentato, vende i suoi vestiti per due bottiglie di vino.
Anche Netter manterrà con Utrillo una relazione amichevole, decidendo di proteggerlo e pagando spesso anche i suoi tentativi di disintossicazione. La vita di Utrillo, arrivato insperatamente a 72 anni, e nonostante il successo dei suoi lavori, è tragica.
Eterno fanciullo disincantato, disprezzato perfino dalle prostitute del quartiere che lo chiamano “Le fou de la Boutte” e dai bambini che gli affibbiano il nomignolo di Litrillo, si rinchiude in casa quarantenne a giocare con un trenino elettrico regalatogli dalla madre.
È il gennaio del 1920. A Modigliani restano pochi giorni di vita. Entra in un ristorante si avvicina a un tavolo dove siede Suzanne Valadon (Bessines 1865 – Parigi 1938) e chiede di potersi sedere accanto a lei perché: “è la sola donna che possa scusare persone come me”. Si appoggia alla sua spalla e comincia a intonare il quaddish, la preghiera funebre della tradizione ebraica, forse presago di ciò che lo aspetta.
Suzanne è in compagnia di altri artisti tra cui il secondo marito André Utter, di vent’anni più giovane di lei e amico del figlio. Nell’ambiente vengono definiti “la trinità maledetta”. Di umili origini, la Valadon amava molto Utter e per lui lasciò il marito Paul Mousis, ricco agente di cambio che le aveva permesso di vivere un’esistenza agiata lasciando il lavoro di modella cominciato a 15 anni col nome di Maria (il nome di battesimo è Marie-Clémentine) che la vedeva posare per svariati pittori.
Bellezza radiosa, diventa l’amante di molti di essi, come Puvis de Chavannes o Renoir. Henri Toulouse-Lautrec se ne innamora follemente.
Torturato dalla gelosia per le relazioni che continua a mantenere con altri artisti, la paragona alla Susanna biblica, concupita dai due vecchioni che la sorprendono al bagno. Maria non se ne risente ed, anzi, adotta il nome d’arte di Suzanne e proprio incoraggiata da Toulouse-Lautrec inizia a realizzare disegni e pastelli, ascoltando e osservando i pittori per i quali posa.
Fra i suoi dipinti in mostra mi ha colpito la Veduta di Corte (Corsica) del 1913, per l’imponente allineamento in primo piano di massi dagli spessi contorni neri in contrasto con la regolarità geometrica delle sottili linee che definiscono gli edifici arroccati sopra ed ai piedi dello sperone roccioso.
Dopo la fine del primo matrimonio, spinta da Utter, uomo pieno di dinamismo, che la stimola, si dedica esclusivamente alla pittura e raggiunge la piena maturità del proprio stile.
Il suo periodo più produttivo – di cui Netter riuscì ad apprezzare l’importanza – si colloca tra gli anni Venti e i primi anni Trenta, quando le sue opere, curiosamente firmate con l’iniziale del nome minuscola, vengono esposte nelle più importanti gallerie e la sua fama supera i confini nazionali.
Di questo periodo è il Ritratto di Maria Lani (1928), giovane attrice polacca non proprio bella, ma dalla personalità carismatica che le permise di farsi ritrarre da più di cinquanta fra i più importanti artisti dell’epoca ai quali si presentava come una promessa del cinema in cerca di ispirazione per un film dell’orrore in cui un dipinto prendeva vita.
I bohemiens parigini accettavano con entusiasmo perché non si trattava solo di ritrarre una donna affascinante, ma anche di sostenerla nella sua carriera artistica di attrice. Nel 1930 tutte le loro opere furono esposte in una mostra a lei dedicata.
Peccato che Maria Lani fosse in realtà una disonesta stenografa che, poco prima della conclusione della mostra, rubò i quadri invenduti e li rivendette in America.
Giovanni Guzzi, agosto 2013
© Riproduzione riservata
CREDITI FOTOGRAFICI
© Pinacothèque de Paris / Fabrice Gousset
* Torino, Società Culturale Subalpina © Collezione Privata
Elenco in ordine di pubblicazione
Moïse Kisling
Ritratto d’uomo (Jonas Netter) 1920
Amedeo Modigliani
Ritratto di Zborowski 1916
Ritratto di Hanka Zborowska 1918
Chaim Soutine
Autoritratto con tenda 1917 circa
Amedeo Modigliani
La bella spagnola o Madame Modot 1918 *
Chaim Soutine
Uomo con cappello 1919 - 1920 circa
Bambina vestita di rosa 1928 circa
Moïse Kisling
La spagnola 1919
Isaac Antcher
Paesaggio di St-Tropez 1930
André Derain
Bosco presso Martigues 1914
Le Grandi Bagnanti 1908
Adolphe Feder
Ritratto di donna 1915
Henri Hayden
Natura morta su sgabello 1920 circa
Moïse Kisling
Donna con maglione rosso 1917
Amedeo Modigliani
Portrait di Béatrice Hastings 1915
Pinchus Krémègne
Céret 1930 circa
Amedeo Modigliani
Elvire con colletto bianco (Elvire con collettino) 1917/1918
Fanciulla in abito giallo (Ritratto di giovane donna con collettino) 1917
Cariatide (Blu) 1913 circa
Ritratto di ragazza dai capelli rossi (Jeanne Hébuterne) 1918
Jeanne Hébuterne
Adamo ed Eva 1919
Amedeo Modigliani
Ritratto di Lepoutre 1916
Bambina in abito azzurro 1818
Ritratto di Soutine 1916
Chaim Soutine
Platani a Céret 1920 circa
La pazza 1919 circa
Maurice Utrillo
Rue Norvins 1909 circa
Rue Marcadet a Paris 1911
Rue Muller a Montmartre 1908 circa
Piazza della Chiesa a Montmagny 1907 circa
Suzanne Valadon
Veduta di Corte (Corsica) 1913
Ritratto di Maria Lani 1928